I reati di bancarotta di cui agli artt. 216, 217, 223 e 224 della Legge Fallimentare, presuppongono o condizionano la punibilità delle condotte ivi descritte alla emanazione della sentenza di fallimento. Si suole parlare a riguardo di reati pre o post fallimentari a seconda che si sia in presenza di condotte che precedono o succedono il fallimento.
E’ di tutta evidenza che nei reati pre fallimentari l’inquadramento dogmatico della dichiarazione di fallimento, ora come elemento costitutivo di reato, ora come condizione di punibilità estrinseca, conduce a risvolti pratici diversi, profondamente rilevanti.
La questione è stata da ultimo affrontata dalla Corte di Cassazione penale con sentenza n. 13910 dell’08/02/2017. In tale occasione gli Ermellini hanno inquadrato la sentenza di dichiarazione di fallimento quale condizione di punibilità estrinseca, quindi, soggetta alla disciplina di cui all’art. 44.
Considerata estranea alla sfera descrittiva del disvalore della fattispecie, la sentenza di fallimento rende le condotte di bancarotta punibili a prescindere da un suo collegamento soggettivo ed eziologico con il soggetto agente. Per mere ragioni di opportunità, dunque, il legislatore condiziona la rilevanza penale delle condotte di bancarotta al fallimento dell’impresa, non assumendo quest’ultimo alcun rilievo in ordine al disvalore delle stesse.
Del resto, queste conclusioni risultano coerenti con una lettura formale dell’elemento in parola. La sentenza di fallimento è infatti prodotta da un soggetto terzo, il giudice, e quindi estranea alla sfera di azione e controllo del soggetto agente.
La conseguenza pratica di questa impostazione è che colui che abbia posto in essere le condotte di bancarotta potrà essere ritenuto penalmente responsabile a prescindere da un accertamento in ordine alla sussistenza del nesso di causalità e del coefficiente psicologico rispetto al fallimento
Orbene, una più attenta analisi della fattispecie, tuttavia, può condurre a ritenere, invece, preferibile un diverso inquadramento dell’elemento della dichiarazione di fallimento. Difatti, oltre la sua concezione formalistica, se ne impone una lettura in chiave sostanziale che non pare possibile tralasciare.
Invero, implicito nel fallimento è lo stato di decozione, di insolvenza, in cui l’impresa versa, che indubbiamente attiene al disvalore e all’offensività delle condotte poste in essere dall’agente. Ed allora il rispetto del principio costituzionale di colpevolezza imporrebbe che il dissesto, che la sentenza di fallimento accerta, sia legato all’agente sia sotto il profilo eziologico, sia sotto il profilo soggettivo, quantomeno in termini di mera prevedibilità.
Solo una concezione di tal genere assicura che rilevino penalmente le sole condotte di bancarotta che si accerti abbiano effettivamente contribuito a determinare lo stato di insolvenza, voluto, o al più prevedibile dall’agente al momento del loro compimento.
In questo senso si è espressa la stessa Corte di Cassazione, con sentenza n. 47502 del 06/12/2012, che, tuttavia, è stata destinata a rimane voce fuori dal coro e da ultimo criticata in occasione della pronuncia di cui sopra.